1906: tutti i regnicoli sono uguali davanti alla legge. Ad affermarlo è l’articolo 24 dello Statuto Albertino. In tema di suffragio il voto amministrativo è espressamente interdetto ‘alle donne, agli analfabeti, nonché ai pazzi, ai detenuti in espiazione di pena
e agli imprenditori che hanno subito una procedura di fallimento’. Ma per il voto politico basta avere un’istruzione e il pagamento di un’imposta sul reddito di almeno 19,8 di lire l’anno. Dieci maestre marchigiane, all’epoca pioniere in una penisola di analfabeti, ispirate da Maria Montessori, non si limitano, come altre donne in tutta Italia, ad avviare comitati per il suffragio ma si iscrivono alle liste elettorali. E il giudice della corte di Appello di Ancona, Lodovico Mortara, accetta la loro richiesta: non perché le ritenesse idonee a svolgere i “doveri forti” della politica ma semplicemente perché “quando la legge tace, non vieta”: non esisteva alcun divieto esplicito. Scoppia lo scandalo sulla stampa, partono i ricorsi e, ormai è storia, le donne ottengono il diritto di votare e di essere elette solo 40 anni dopo, con una legge del 1945: il 2 giugno del ’46, di cui ricorre quest’anno il 70esimo anniversario, 21 di esse diventano parlamentari e, pur essendo di estrazione politica e sociale diversa (molte erano state partigiane) si uniscono perché nell’assemblea in cui venne scritta la nostra Costituzione, composta da 535 uomini, vengano sanciti la parità di sesso e altri diritti essenziali dell’uguaglianza di genere. Sono le nostre madri costituenti.
Le 10 ‘maestrine’, sconfitte, tornano nelle pieghe della storia, rispolverata però, con tocco leggero, impressionista, dalla scrittrice Maria Rosa Cutrufelli che nel romanzo ‘Il giudice delle donne’ (ed. Frassinelli) non solo riporta alla luce un fatto pressoché inedito della lotta per l’emancipazione femminile in Italia ma ci regala anche un ritratto della condizione delle donne all’inizio del secolo scorso, tessendo il racconto verosimile delle loro vite.
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