“Il regime patriarcale ha abituato gli uomini a essere padroni delle donne e le donne a essere loro suddite; ne deriva che la violenza ha potuto essere perseguita su diversi fronti nel corso del tempo colpendo
la dignità e l’autostima, l’autonomia psicologica, sociale e psichica, la potenzialità creativa, il diritto a partecipare alla costruzione del mondo, in definitiva la coscienza di sé come soggetto. L’abuso sessuale mi sembra l’ultimo anello di questa catena di violenze, forse il più definitivo e devastante”. Ad affermarlo è Marina Valcarenghi, psicoterapeuta e psicoanalista nel libro “Ho paura di me – Il comportamento sessuale violento” (ed. Bruno Mondadori).
Valcarenghi, presidente dell’associazione Viola per lo studio e la psicoterapia della violenza, nel volume racconta della sua attività con vittime e stupratori e, in particolare, della sua pionieristica esperienza con i detenuti sessualmente violenti all’interno di un carcere (dal 1994 ad Opera).
L’autorevole studiosa trasmette alcune certezze. Innanzitutto non esiste uno stupratore o pedofilo ‘tipo’, non esiste un percorso, nemmeno tra coloro che sono stati abusati a loro volta da bambini, che conduca inevitabilmente a commettere questa tipologia di crimini. In secondo luogo evidenzia il problema della cura: se coloro che finiscono in carcere per aver commesso questo genere di abusi non vengono trattati clinicamente, reitereranno le stesse violenze non appena scarcerati perché queste hanno origine da un disagio psichico irrefrenabile. Valcarenghi separa il piano terapeutico da quello giudiziario: chi si sottopone consapevolmente ad una terapia non avrà sconti di pena. Però si chiede anche come aiutare i sex offender ancora liberi che vorrebbero chiedere aiuto ma non lo fanno per non essere denunciati e chiusi in carcere, dove, nell’attuale sistema penitenziario, non sono previste forme concrete di sostegno psicologico. Ipotizza dunque la nascita di centri di accoglienza e di terapia affinché la collettività sia protetta mentre la denuncia penale segue il suo corso. Ma ciò che più interessa sono le sue conclusioni su società patriarcale, misoginia e educazione al sentimento. Scrive Valcarenghi: “Se gli uomini non capiscono la femminilità, questo è un loro problema, un loro deficit: non siamo noi ad essere misteriose, sono loro che non sono capaci o che non si impegnano o che non sono stati abituati a fare lo sforzo necessario. Noi donne siamo invece addestrate da tempo immemorabile a capire gli uomini, a sapere come funzionano, pensano e reagiscono per adattarci alle loro esigenze o per contrastarle”. Serve una (…) “rivoluzione culturale per niente scontata. Parlo di rivoluzione culturale perché si tratta di rovesciare lo stato di cose presenti e di costruire una nuova abitudine mentale maschile che si compenetri della convinzione che sia interessante, giusto e utile usare intelligenza e sensibilità per capire le donne, il loro modo di pensare, di sentire, di stare al mondo e anche di subirlo. Gli uomini capiscono le donne in base alla loro funzione, più di rado per quello che una donna é“. Secondo la psicoterapeuta il fallimento delle politiche a difesa delle donne è dovuto non solo al fatto che “i pensieri sulle donne sono stati quasi sempre pensati dagli uomini” ma anche dal fatto che “prendono in esame solo la trasformazione dell’oppressione socioculturale del genere femminile e non tengono contoo della misoginia (dal greco: misos odio e gyne donne, odio contro le donne, ndr), che è un sentimento tenace e che non riguarda solo il genere maschile. Qualche volta le donne sono più misogine degli uomini. Così assistiamo solo a episodiche cooptazioni: ogni tanto qualche donna sale sul carro degli uomini e per forza si mimetizza. Ma è questo che vogliamo?”. Per Valcarenghi l’oppressione socioculturale potrebbe essere affrontata con leggi e regolamenti ma deve essere complementare ad un’educazione emotiva. Nelle scuole, suggerisce, si potrebbe usare una parte delle ore di educazione civica “per raccontare la storia delle donne, si potrebbe parlare della differenza di genere nel modo di costruire pensieri e tessere relazioni. Si potrebbe anche affrontare il tema della violenza sessuale”. Un approccio usato oggi solo da alcune docenti illuminate.
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