I mass media hanno rilanciato le parole del giudice della Corte di Cassazione all’apertura dell’anno giudiziario. Ma il messaggio non è a difesa delle donne e non fa cenno alla Convenzione di Istanbul
Allarme sociale femminicidi, stalking e vulnerabilità della donna. Sono le parole usate il 26 gennaio a Roma da Giovanni Mammone, Primo presidente della Corte Cassazione, nella sua relazione per l’apertura dell’anno giudiziario 2018.
E’ bene che si parli di femminicidi, atti persecutori e violenza contro le donne. Ma analizziamo come è stato fatto. E perché non c’è alcun riferimento alla Convenzione di Istanbul.
La frase, rilanciata subito dai mass media, è arriva a metà discorso, più precisamente al punto 10. Prima si parla dei 70 anni della Costituzione Italiana, del ruolo della Suprema Corte (rappresenta in Italia il terzo e ultimo grado di giudizio), dei suoi rapporti con la Corte europea dei diritti dell’uomo (dell’umanità!), di alcuni dei più importanti pronunciamenti avvenuti nel 2017, tra cui le sentenze sull’assegno di divorzio legato alla “mancanza di autosufficienza economica del coniuge richiedente e non più al mantenimento del tenore di vita dallo stesso goduto in costanza di matrimonio”.
Il punto 10 annuncia, invece, “alcuni dati significativi emergenti dalla concreta realtà giudiziaria”. Ed apre parlando dell’abuso dei mezzi social e delle frodi informatiche.
Poi si arriva al dunque: “Di notevole allarme sociale è il fenomeno del cosiddetto femminicidio, che è indice della persistente situazione di vulnerabilità della donna e di una tendenza a risolvere la crisi dei rapporti interpersonali attraverso la violenza”.
In questa prima frase, quella che ha avuto maggiore eco, si nota subito la mancanza della parola uomo: si parla di una situazione di vulnerabilità della donna come se si parlasse del ciclo mestruale, di un fatto naturale o endemico, come se non esistessero fattori esterni come gli uomini violenti e un costrutto sociale patriarcale. Poi esiste una indeterminata ‘tendenza‘ alla violenza, come se in questo caso la responsabilità ricadesse al 50% su entrambi i componenti della coppia, o fosse genericamente imputabile alla società. Ed infatti anche la frase successiva è del tutto impersonale: “Vengono segnalati, inoltre, l’aumento del numero dei procedimenti per reati contro la libertà sessuale e per atteggiamenti persecutori verso il partner (stalking), nonché l’allarmante fenomeno delle aggressioni violente e immotivate messe in atto da giovanissimi ai danni di coetanei”. Quindi di uomini maltrattanti, di ex compagni persecutori o stalker, stupratori e abusatori, di mariti o ex che diventano assassini, che uccidono spesso con premeditazione, non c’è parola. Non è cosa da poco per una ‘pronuncia’ del massimo esponente della Corte Suprema, ancorché discorsiva.
Stupro, stalking, bullismo e baby gang, inoltre, sono tutti sullo stesso piano, correlati: certo, il denominatore comune è la violenza gratuita, che si lascia sottinteso essere agita per lo più dai maschi, ma è come fare di tutta un’erba, un fascio.
Il presidente Mammone aggiunge, di seguito: “Si tratta di vicende che non solo impegnano la polizia giudiziaria e la magistratura, ma che coinvolgono le famiglie, i servizi sociali e gli altri enti incaricati della tutela delle vittime. A fronte del moltiplicarsi dei fenomeni di esplosione incontrollata di aggressività la risposta esclusivamente repressiva si rivela inefficace. La materia nel suo complesso, per il suo preoccupante sviluppo, è meritevole di una considerazione legislativa unificante, che superi la parcellizzazione dei comportamenti sul piano della tutela penale, la quale dà luogo sovente a fattispecie di reato obiettivamente minori, perché punite con pene di modesta entità”. Due, qui, i problemi. Prima il giudice supremo afferma che la sola repressione non basta. E su questo siamo d’accordo: lo sottolinea già ampiamente la convenzione di Istanbul, che è legge in Italia dall’agosto 2014. Come dicono chiaramente i 18 capitoli del trattato che è stato ratificato da 28 nazioni europee (ne mancano all’appello 17), bisogna eliminare la violenza sulle donne alla radice, non limitandosi quindi a soccorrere le vittime ma fermando a monte gli uomini, agendo all’origine di qualsiasi forma di abuso. Però poi il Presidente della Corte di Cassazione chiede una “considerazione legislativa unificante” per evitare pene “parcellizzate”. E non si sa se si sta parlando di bullo, stupratore o femminicida. Di certo, però, esiste già uno strumento operativo avanzato e di ampie vedute per quanto riguarda le diverse tipologia di violenza sulle donne, la convenzione di Istanbul, che non viene citata. Basterebbe applicarla pienamente per rimuovere la cosiddetta situazione di vulnerabilità delle donne, ricavando, probabilmente, beneficio indiretto riguardo ad altre forme di aggressività.
In ultima analisi, bene il focus sui femminicidi ma prestiamo attenzione alle parole che non sono state dette
(27 01 2018)
30 Gennaio 2018 alle 18:30
Da un punto di vista giuridico (che ovviamente è quello prediletto dai magistrati della Cassazione) vulnerabilità non vuol dire inferiorità o nulla di simile ma carenza di strumenti adeguati a tutelare la donna in caso di violenza. Ad esempio, l’introduzione delle misure interdittive contro le violenze in famiglia non funziona nel modo dovuto, né risulta che le denunce formulate siano trattate con la tempistica necessaria. Non bisognerebbe fare retorica sull’uso della parola vulnerabilità, che sul piano normativo comporta l’efficacia della protezione della propria integrità psicofisica. Parlare di vulnerabilità persistente significa che il livello di protezione offerto a livello istituzionale è ancora inadeguato, e di certo tutto questo non prescinde da limiti culturali della società civile.
30 Gennaio 2018 alle 19:27
La ringrazio molto per la precisazione. La mia, certo, non è una lettura ‘giuridica’, non ne ho le competenze. Ma la questione della ‘vulnerabilità’, anche nella sua accezione più ‘positiva’ , non toglie il fatto che poi nel discorso citato si usino frasi del tutto impersonali e indeterminate. Ho riportato apposta con precisione le espressioni del giudice per mostrare che la parola ‘uomo’ non è mai indicata. Inoltre si suggerisce una legislazione ad hoc quando esiste già, applicata solo ai minimi termini, la convenzione di Istanbul. La quale, cito “riconosce che le donne e le ragazze sono maggiormente esposte al rischio di subire violenza di genere rispetto agli uomini; che la violenza domestica colpisce le donne in modo sproporzionato e che anche gli uomini possono essere vittime di violenza domestica; che i bambini sono vittime di violenza domestica anche in quanto testimoni di violenze all’interno della famiglia”. La Convenzione è molto chiara: indica chi sono le vittime, chi sono i colpevoli, cosa bisogna fare e chi lo deve fare. Chiudo citando il Consiglio d’Europa: “La Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica (firmata ad Istanbul, ndr) è basata sulla comprensione che la violenza contro le donne è una forma di violenza di genere commessa nei confronti delle donne perché sono donne. E’ obbligo dello Stato affrontare ciò pienamente in tutte le sue forme e adottare misure per prevenire la violenza contro le donne, proteggere le vittime e perseguire i colpevoli. In caso contrario, la responsabilità ricadrebbe sullo Stato. La convenzione non lascia dubbi: non ci può essere vera parità tra donne e uomini, se le donne sperimentano la violenza di genere su larga scala e agenzie statali e le istituzioni chiudono un occhio”. Qualcosa si sta muovendo sul fronte della repressione (ad es. legge sullo stalking) ma per il resto, purtroppo, siamo ancora solo alla fase di lanciare generici allarmi. Grazie per l’attenzione